Cosa dire, come dirlo, a chi dirlo. Quando un dipendente risulta positivo al contagio.

Purtroppo può capitare.


In tempo di pandemia, nonostante tutti gli accorgimenti presi e i dispositivi di protezione predisposti, accade che qualcuno in azienda si ammali. Scatta per quella persona il doveroso periodo di quarantena e le autorità sanitarie si occuperanno, al meglio delle loro forze, di ricostruire la rete dei contatti.
Rimane però in capo alla dirigenza il dubbio della comunicazione dell’evento; dubbio che affonda le sue radici in un comprensibile conflitto di interessi tra la tutela della salute dei proprio dipendenti e la continuità delle attività aziendali.
A New York i trader alla JPMorgan Chase a Manhattan recentemente si sono lamentati quando hanno scoperto un caso di coronavirus nel loro edificio attraverso un notiziario. La banca ha informato solo le persone sullo stesso piano, o chi aveva avuto potenziali contatti con le persone infette. Il caso ha aperto un dibattito sui possibili
comportamenti in casi come questi, sempre più frequenti in questo periodo.


Non dirlo a nessuno
La responsabilità di rintracciare i contatti dovrebbe essere delle autorità sanitarie, con le quali si è chiamati a collaborare. Laddove si escludono possibili contatti in azienda, un’opzione è far finta di niente. Questo però espone l’azienda a critiche interne laddove accada che, come per il caso newyorchese, i dipendenti vengano a sapere dell’accaduto attraverso fonti terze, stampa o passa parola.


Dirlo solo ai possibili contatti
In uno sforzo di “intelligence” l’azienda potrebbe farsi carico di predisporre, attraverso un’accurata ricostruzione, una lista dei contatti che ha avuto il contagiato e comunicare l’accaduto solo a loro. Ovviamente nulla vieta che, oltre il contagio, si diffonda anche la sua psicosi con l’emergere di comportamenti da parte di tutti di presunta tutela della propria salute (assenteismo, ricorso alla malattia, ecc.).


Dirlo a tutti
Laddove una tale comunicazione alimenti senza ombra di dubbio un senso di trasparenza e apertura, gli effetti, soprattutto su una grande organizzazione, possono essere imprevedibili. Si potrebbero manifestare da casi di psicosi collettiva, con grave danno sulla serenità dell’ambiente di lavoro, a comportamenti già citati in precedenza.


Dunque?
Come si vede non vi è certezza di minimizzare i danni nel caso di un contagio in azienda. La causa però è da ricercarsi nell’abbondanza di dispositivi e procedure “passive” per combattere il contagio e l’assenza di dispositivi “attivi” e di tracciamento “sicuri”.
Un dispositivo “attivo” ci avverte immediatamente di un comportamento pericoloso (troppa e prolungata prossimità con un’altra persona), un dispositivo “passivo” si limita a cercare di impedircelo con barriere fisiche senza alcuna interazione (guanti, mascherine, schermi, ecc.).
Un dispositivo di tracciamento “sicuro” è un apparato che non genera falsi positivi, ovvero che registri un pericolo che non è tale, e che rispetti la privacy di coloro con i quali entra in contatto.


Un tale dispositivo esiste: è il Covitag.


Dotarsi in azienda, e farlo indossare ai suoi ospiti occasionali, consente di prevenire il caso del contagio e risolvere i dubbi prima descritti.
Infatti grazie alla tecnologia infrarosso sulla quale è basato Covitag, il contatto troppo vicino e prolungato viene registrato solo se la prossimità è in “linea di vista”, che è la stessa modalità con la quale si trasmette il virus. Tale garanzia non sono in grado di darla altri dispositivi basati su radio frequenze (Bluetooth, Ultra Wide Band, eccetera) il cui segnale passa attraverso le barriere fisiche (muri, scaffali, macchinari, eccetera). Inoltre essendo registrati solo i codici degli apparati, e non i nominativi,
la ricostruzione della rete dei contatti potrà avvenire solo da parte del responsabile dati per gli usi prettamente consentiti e non da parte di qualsiasi possessore del Covitag o di terzi malintenzionati. Se tutta l’organizzazione è a conoscenza delle caratteristiche del dispositivo, l’azienda potrebbe ricostruire i contatti che ha avuto il contagiato all’interno della stessa e comunicare l’accaduto solo ai dipendenti e/o ospiti che hanno frequentato la sede nei 14 giorni prima del contagio in quanto ci
sarà certezza di chi è stato effettivamente in contatto e, soprattutto, chi non lo è stato. Inoltre, ancor più importante, la certezza della rete dei contatti scongiura, anche agli occhi dell’autorità sanitaria, il pericolo di dichiarare la sede di lavoro “focolaio” col rischio di una indiscriminata e ingiustificata chiusura in quarantena con conseguenti fermi delle attività aziendali.